Appello Pubblico
Fermiamo la distruzione di palazzo Gualino,
una delle principali opere dell'architettura moderna
a Torino e in Italia.

Palazzo Gualino a Torino sta per essere manipolato a tal punto da venire nei fatti distrutto. È uno degli edifici più importanti e significativi della storia recente della città, costruito tra il 1928 e il 1929 dagli architetti Giuseppe Pagano Pogatschnig e Gino Levi-Montalcini. Era stato commissionato da Riccardo Gualino, finanziere e industriale illuminato d’origine biellese tra i più importanti dell’epoca, ma anche uomo di cultura e grande collezionista d’arte, committente di architettura e mecenate nei campi del teatro, della musica e del cinema, mandato al confino nel 1931 per i suoi contrasti con i «poteri forti» del tempo.

Il palazzo è stato dapprima sede delle attività e delle società di Gualino, che aveva il suo ufficio all’ultimo piano, dal quale dominava il paesaggio urbano e il fiume. Gli architetti che lo hanno progettato sono tra le figure più nobili dell’architettura italiana: Pagano nato nel 1896, uomo intransigente e di grande dirittura morale, diventato direttore di «Casabella» e morto a Mauthausen nel 1945; Gino Levi-Montalcini tra i professionisti più rigorosi e impegnati di Torino, nato a Milano nel 1902 e morto a Torino nel 1974, ottimo scultore oltre che architetto, operante anche dopo la guerra sia come progettista che come professore. Entrambi parte di una cerchia molto viva e plurale di intellettuali, artisti e architetti, che ha fatto della città un luogo di elaborazioni e sperimentazioni intense in campi diversi della cultura.

L’edificio sorge in un punto strategico e di forte visibilità, all’angolo tra corso Vittorio Emanuele e via della Rocca. È il manifesto e la prima opera di forte significato dell’architettura moderna in Italia. Le riviste e la stampa dell’epoca lo avevano esaltato come simbolo di un nuovo corso ed espressione di progresso: ma anche come edificio esemplare nell’introdurre un nuovo tipo di organizzazione degli uffici e delle attività direzionali in campo industriale. Pietro Maria Bardi lo pone in primo piano in un suo collage del 1928, opponendolo ad edifici eclettici e pompier. Ha una bibliografia vastissima ed è stata un’opera largamente ammirata anche all’estero. È un esempio di progettazione integrale, dove tutto era stato accuratamente previsto e disegnato, dalle facciate e dalla presenza urbana agli interni, dalle scale e dagli spazi comuni ai locali dirigenziali e di lavoro, dai materiali usati con maestria alle luci e ai colori, dal comfort e dagli oggetti ai tanti mobili ed arredi di disegno bellissimo.
Il Palazzo è diventato poi proprietà degli Agnelli, che vi hanno trasferito i loro uffici personali e lo hanno destinato a sede della Fiat. Poi ancora, nel 1988, è passato in proprietà al Comune di Torino, che vi ha insediato i propri uffici tributari. Il Comune, per risolvere problemi di bilancio e «far cassa» in modo rapido, ha deciso di venderlo insieme a tante altre sue proprietà. Si tratta di un’operazione di dismissione di beni pubblici di vasta portata, insensata oltre che dal punto di vista amministrativo e politico anche da quello economico, incapace di portare un risanamento che dovrebbe essere ben altrimenti perseguito, contraria all’interesse collettivo e alla tutela del patrimonio culturale.

L’edificio è stato acquistato dalla società di costruzioni romana Gesco Impresit, che lo ha pagato 14,2 milioni di euro, versati a quel Fondo immobiliare Città di Torino cui il Comune ha conferito i suoi edifici più pregiati. Il piano regolatore non impedisce il cambio di destinazione d’uso: così il progetto prevede la realizzazione di 35 alloggi di gran lusso per complessivi 3.500 metri quadrati, oltre che ambienti di carattere condominiale, cantine, locali per impianti tecnici, e ben tre piani sottostanti di autorimesse, che richiedono di sottofondare l’edificio sino a grande profondità. Viene in pratica conservata solo la facciata, tutelata da un vincolo della Soprintendenza, mentre quasi tutto il resto e gran parte delle strutture e degli ambienti interni viene brutalmente sventrato. Il progetto è ridicolmente e ipocritamente chiamato dal costruttore e dai progettisti, ma anche da altri, di «rifunzionalizzazione» e «rivitalizzazione», né manca come ovvio la chicca aggiuntiva del «risparmio energetico» meritevolmente conquistato, e di impianti avanzatissimi ad «energie rinnovabili». 

Si assiste a un paradosso davvero straordinario. Da un lato, a Torino si stanno costruendo centinaia di migliaia di metri quadrati di uffici in palazzi nuovi e in nuovi grattacieli, sulla spinta di grandi interessi finanziari e immobiliari, senza per altro sapere se con la crisi saranno mai utilizzati. Da un altro lato e contemporaneamente, si distrugge una testimonianza essenziale dell’architettura moderna destinata sin dall’origine ad uffici, per trasformarla in abitazioni privilegiate.
È ormai una acquisizione della cultura di tutti i paesi che i beni da tutelare non sono solo edifici di epoche remote, e che la conservazione deve e può riguardare le testimonianze più preziose del passato recente, assumendole come cardini e riferimenti dei nuovi progetti urbani. C’è un grande e poderoso patrimonio dell’architettura moderna che deve ad ogni costo essere preservato. Torino è stato uno dei centri italiani più importanti nell’elaborare i messaggi della modernità: eppure ha già distrutto in modo irresponsabile alcune delle sue architetture più significative, e prosegue indifferente lungo questa strada.
Sconcerta la cecità di un’amministrazione che si dichiara democratica e avanzata, ma soggiace ad interessi privati e mostra così scarsa sensibilità per la cultura e la tutela delle sue eredità materiali. Ma sconcerta anche l’assenza di principi e il grado di opportunismo di una parte rilevante del mondo intellettuale e della stampa, che giustificano l’operazione, la sostengono, la motivano, mascherando il senso degli eventi e deviando la pubblica opinione.

Se palazzo Gualino verrà distrutto, come sta per essere, si sarà perpetrato uno scempio non rimediabile e si sarà portata un’offesa profonda alla migliore tradizione della cultura torinese. Per questo ci rivolgiamo al sindaco, al consiglio comunale, alle forze politiche, alle istituzioni universitarie e culturali, ai circoli di quartiere, alla stampa, all’opinione pubblica, perché questa operazione venga fermata, e perché si apra il confronto su come elaborare una diversa politica di difesa del patrimonio pubblico e una diversa linea di intervento sulla città.

DANIELE VITALE

(Docente di Composizione Architettonica presso il Politecnico di Milano)

(01 luglio 2012)